La corte d’Appello di Milano, con Sentenza pubblicata il 23 aprile 2020, ha rigettato i reclami proposti ex art. 18 L.F. contro la sentenza di primo grado che dichiarava il fallimento di una società di capitali, affermando che risulta adeguatamente dimostrato in capo alla fallita lo stato d’insolvenza e quindi l’irrealizzabilità di un suo ritorno in bonis. La sentenza impugnata sosteneva che lo stato d’insolvenza fosse dimostrato: - dalla sospensione della vendita dei diamanti di investimento (attività principale) a partire dall’ottobre 2016 a seguito dell’inchiesta del programma Report; - dalla sanzione comminata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per 2.000.000 confermata dalla sentenza del tar del Lazio del 14/11/2018 per soddisfare la quale la società non ha allo stato mezzi; - dal panic selling ingenerato nei clienti proprietari dei diamanti acquistati dalla …omissisi… e custoditi presso i caveaux societari con ingenti costi e il venir meno della fiducia degli acquirenti nuovi che ha determinato il crollo del valore dell’attività sul mercato; - dall’impossibilità di far fronte con il proprio patrimonio sociale alle centinaia di mediazioni e al crescente contenzioso con la clientela riguardante l’annullamento e/o la nullità e/o la risoluzione dei contratti di vendita e conseguentemente la restituzione delle somme pagate per l’acquisto dei diamanti e/o il risarcimento dei danni (stimato per circa Euro 30.007.874,52); - dall’impossibilità di addivenire ad una soluzione concordata della crisi ex art. 182 bis L.F.; - dall’indisponibilità della compagine sociale alla sottoscrizione di un prestito obbligazionario per Euro 4.500.000”. I reclamanti, hanno impugnato tale decisione sostenendo che lo stato d’insolvenza non fosse stato adeguatamente dimostrato dal giudice di prime cure e che le banche, sebbene insinuatesi al passivo, erano “responsabili della situazione in cui versava la …omissis…, che invece era a suo dire titolare di un controcredito risarcitorio per le modalità illegittime con le quali gli istituti di credito, esorbitando dalle loro facoltà, avevano posto in essere una “serratissima promozione del diamante da investimento” in termini incompatibili con il corretto adempimento del rapporto contrattuale e con decisivo rilievo causale nella realizzazione della pratica commerciale illecita accertata dall’AGCM” . La Corte d’Appello ha ritenuto infondati i motivi di doglianza dei reclamanti ed ha confermato la sentenza di primo grado, sostenendo che: “A parte il fatto che notoriamente una società di capitali col patrimonio integro ben può essere insolvente (e viceversa), è bene ricordare ancora una volta che qui si sta parlando di una situazione in cui: - senza nulla più ricavare a far tempo dalla sospensione del marzo 2017, tranquillamente qualificabile come vera e propria chiusura dell’attività d’impresa, la società ..omissis… pacificamente accumulava ogni mese 300.000 euro di costi per la gestione dei reclami e la restituzione dei preziosi (che ovviamente non poteva essere omessa o ritardata, se non incorrendo in penali ed ingiunzioni); - la società era sottoposta ad amministrazione giudiziaria; - il curatore aveva comunicato che erano state avanzate 19.000 domande restitutorie o risarcitorie (il che si traduceva in una prospettiva di esborsi dell’ordine di 19 milioni, se si fosse ipotizzato un carico minimo di spese pari a 1000 euro per ciascun affare; a questo proposito il difensore del fallimento ha fatto presente all’udienza del 7.11.19 che il curatore aveva segnalato di aver dovuto escludere dei crediti dallo stato passivo per l’impossibilità di esaminare tutte le numerosissime insinuazioni pervenute nella procedura); - la sanzione di 2 milioni di euro comminata dall’AGCM costituiva un ulteriore vulnus alla liquidità dell’impresa; - l’incedere dei processi penali, per quanto ancora in assenza di pronunce definitive, aveva intanto sottratto alla società, già priva di liquidità, anche la disponibilità di mobili ed immobili, posto che nel febbraio 2019 tutti i beni della IDB erano stati sottoposti a sequestro dal GIP di Milano (il quale aveva inoltre rinviato a giudizio il trustee avv. F. in data 21.3.19). Va a questo punto sgombrato il campo dalle residue doglianze di contorno dei reclamanti, in relazione alle accuse rivolte agli istituti di credito ed al riferimento all’accantonamento del TFR. Quanto alla prima questione, conviene ricordare che lo stato di insolvenza produce gli effetti previsti dall'ordinamento una volta concretizzatosi nei suoi profili obiettivi, senza che rilevi ogni indagine sulle cause del dissesto e sulla loro imputabilità o meno all'imprenditore, piuttosto che a soggetti terzi (SSUU 115/2001 e Cass. 15769/2004), mentre quanto al secondo punto, viene in evidenza che tale voce è stata appostata come debito a scadere, tale essendo benché inesigibile. Tutto quanto sopra argomentato la Corte d’appello ha confermato la sentenza di primo grado “risultando adeguatamente dimostrata in capo alla fallita la mancanza delle risorse necessarie ad una credibile ripresa di attività e quindi l’irrealizzabilità di un suo ritorno in bonis, per non essere costei, all’epoca del deposito del ricorso e del dichiarato fallimento, in grado di soddisfare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni”.